SAKE DAYS 2023
Approfondimento
A cura della redazione
La distillazione in Giappone: una eredità culturale.
Le origini effettive del processo di distillazione non sono mai state completamente accertate, ma si dice che un ancoraggio per una singola distillazione chiamato “alambico” si sia sviluppato nel mondo arabo durante il V secolo e si sia diffuso sia a est che a ovest. E’ noto invece che alcuni distillati furono prodotti in Asia già a partire dal XIII secolo.
E in Giappone? Secondo una prima ricostruzione sembrerebbe che la tecnologia di distillazione sia approdata prima sulle isole di Okinawa, che commerciava con i paesi del sud-est asiatico, durante il XV secolo e da lì si sia diffusa gradualmente nel sud del Giappone nell’isola di Kyushu. Secondo altri, lo sviluppo della distillazione giapponese avrebbe invece seguito un percorso duplice: da una parte ad Okinawa dalla Tahilandia e dall’altra seguendo la direttrice dalla Corea all’isola di Kyushu, nel sud del Giappone.
Comunque sia, un fatto è indubbio: la distillazione giapponese ha portato nei secoli alla creazione di spiriti tipici ed unici.

Awamori, Amami e Shochu: i distillati giapponesi.
Nel variegato panorama delle bevande alcoliche giapponesi, un trio di distillati tradizionali si distingue come rappresentanti della ricca eredità culturale e dell’artigianato giapponese: Awamori, Amami e Shochu.
Questi distillati racchiudono secoli di storia e costituiscono espressioni culturali di zone geografiche vocate alla loro produzione: le isole di Okinawa per l’Awamori, il sud del Giappone per lo Shochu e l’isola di Amami per l’omonimo distillato.
Ognuno di questi distillati con i loro particolari metodi di produzione e legami regionali offre un affascinante viaggio nel cuore della tradizione e del terroir delle prefetture meridionali dell’arcipelago giapponesi. E non è un caso se le prime designazioni geografiche (GI) giapponesi sono state assegnate per l’appunto allo Shochu e all’Awamori (giugno 1995).
Il fratello discreto.
Spesso descritto come il “fratello più discreto” del sake, lo Shochu è un distillato che vanta almeno cinquecento anni di storia.
Originario dell‘isola di Kyushu, la più meridionale del Giappone dove si svilupparono le prime tecniche di distillazione, lo Shochu è stato prodotto a partire dal 16° secolo. Oggi il suo consumo ha superato i confini regionali per diventare una bevanda amata in tutto il paese e oltre.
Differente dal sake, che viene prodotto tramite la fermentazione, lo Shochu viene creato attraverso la fermentazione prima ed una successiva – singola nel caso dello shochu c.d. Honkaku – distillazione di ingredienti come orzo, patate dolci, riso o grano saraceno, solo per citarne i più diffusi (rappresentano circa il 99% della produzione di shochu). Ci sono poi alcune produzioni autoctone, come l’Amami di cui parleremo nel prossimo articolo, che utilizzano particolari ingredienti che le distinguono.
Kyushu: la patria dello shochu.
Fukuoka, Saga, Nagasaki, Kumamoto, Miyayzaki e Oita sono le prefetture dove si produce la maggior parte di shochu in Giappone. E non è un caso se qui si concentrano le distillerie più antiche del Sol levante. Si stima che, ad oggi, siano attive circa 500 case di produzione dello shochu nel sud del Giappone. A riprova che lo Shochu costituisca una parte importante nel dna della tradizione giapponese, basti pensare che le prime denominazioni geografiche tipiche in Giappone (1995) sono state concesse a due zone del Kyushu proprio a tutela e promozione della produzione di questo distillato: Iki, nella prefettura di Nagasaki (30 giugno 1995), e i distretti di Kuma e Hotoyoshi, nella prefettura di Kumamoto (30 giugno 1995).
Shochu: Lo spirito versatile.
I metodi di produzione dello Shochu si attestano su un contenuto alcolico inferiore (25-35% in media) rispetto ad altri distillati. Questo permette ai suoi diversi sapori di emergere delicatamente e di essere accreditato tra i distillati più gentili.
Le caratteristiche gusto-olfattive dello Shochu possono variare significativamente a seconda dell’ingrediente base (che può essere riso, patate dolci, grano saraceno, orzo…) alle tecniche di produzione e ai processi di invecchiamento.
Grazie ai suoi toni morbidi lo shochu può essere degustato puro, unito ad acqua calda oppure con ghiaccio o come base per cocktail creativi.
L’attrattiva dello Shochu risiede nella sua innata capacità di adattarsi a diversi palati anche quelli più sensibili. Non ci credete? Venite ai Sake Days l’8 di Ottobre e passate dallo stand di beregiapponese o seguite il talk di Luca Rendina che dello Shochu ha fatto una sua missione di vita.