Message On the bottle.
Intervista a Marco Crivellin, fotografo di Interni & Still Life.
A cura di G. Baldini
E’ un fatto: siamo sommersi di fotografie e mai come in questo momento storico la definizione di “Società dell’immagine” fu più calzante. Eppure in questa epoca digitale il lavoro di fotografo è senza dubbio una professione di comunicatore troppo spesso sottovalutata e sottoposta all’onta di programmi informatici o applicazioni che offrono soluzioni estetiche matematiche pronte all’uso prefabbricando “vuote immagini eccellenti”. E se invece volessimo scoprire quale lavoro è dietro ad un vero progetto fotografico? Lo abbiamo chiesto a Marco Crivellin, fotografo professionista. In questi anni Crivellin, docente di Still life della scuola internazionale Apab di Firenze, ha potuto cimentarsi nello sviluppare alcune riflessioni fotografiche intorno al sake, visto questa volta non già come bevanda bensì come icona, frutto della storia e della tradizione del Giappone.
Il sake rappresenta il frutto di un sistema complesso e la sua estetica ne è appunto il riflesso. Se è vero che le etichette, la forma e il colore di una bottiglia – che sia di vino come di sake – comunicano un messaggio è altrettanto vero che questo messaggio per essere efficace, per arrivare integro ai suoi destinatari deve sottostare a regole di comunicazione ben precise, tutt’altro che banali e da cui non si può prescindere. L’estetica esprime e sostiene, ad esempio, il posizionamento nel mercato che il produttore vorrebbe occupare ed esprime la brand identity ovvero quell’immagine di sé e della storia della cantina che il produttore vuole costruire e diffondere nell’immaginario collettivo. Se quindi le regole fondamentali di comunicazione nella costruzione di una estetica sono rispettate e, anzi, completate dalla scelta coerente dei materiali (vetro, carta) e dalla loro espressione grafica e tattile, ecco che valori come tradizione, qualità ed eleganza, solo per citarne alcuni, sono elementi che inevitabilmente appaiono nella mente dello spettatore/consumatore. L’immagine, formata dagli elementi quali l’etichetta frontale e posteriore, la forma ed il colore della bottiglia, il tipo di tappo, costituisce parte essenziale del packaging e – oltre a veicolare un proprio messaggio esplicito – ha il compito di suscitare immediate emozioni agli occhi di chi sta per scegliere un sake dallo scaffale. L’estetica di una bottiglia può essere un medium emotivo molto potente. E lo è a tal punto da essere considerata una vera e propria leva per sollecitare e supportare quella tensione all’acquisto che – certo, insieme ad altri fattori – può concorrere in modo determinante a perfezionare la scelta verso una determinata bottiglia o produttore, di vino come di sake.
Tenendo a mente questo quadro di riferimento, cosa succede per il sake dal punto di vista fotografico? Se cioe’ spostiamo angolo visuale dal produttore a chi questo messaggio deve riprodurre? Per il fotografo, quali aspetti vengono in luce? E’ evidente che per il sake interviene senz’altro anche un elemento culturale ulteriore ed esterno che deve essere gestito e può a ben vedere essere esaltato: quello di provenire dall’estremo oriente e da una cultura originaria. Se si preclude questa evidenza si rischia di perdere o falsificare una parte del messaggio che il sake contiene come ambasciatore di una tradizione millenaria. E’ proprio qui che la tradizione giapponese può giocare una carta esclusiva attingendo dalla propria ricca iconografia.
Come è nato questo progetto e cosa significa scoprire il sake giapponese attraverso le immagini?
M. Crivellin: E’ un lavoro nato espressamente per Instagram, dove le immagini sugli schermi sono piccole e la composizione fotografica deve tener di conto di questo che rappresenta solo apparentemente un limite dal punto di vista dello Still life. Dopo un attento lavoro di ricerca sul sake e sulla cultura giapponese in generale, ho trovato la chiave di lettura che mi è parsa la più adatta per non trascendere la prima impressione spontanea che si percepisce quando noi occidentali siamo davanti ad una bottiglia di sake. D’altro canto, e allo stesso tempo, volevo preservarne il messaggio originale.
Dopo questa full immersione fotografica intorno al sake, quale tratto di questo fermentato giapponese è rimasto più impresso?
M. Crivellin: Il sake è ricco di sapori delicati con diverse sfumature, se dovessi fare una metafora visiva direi che lo assocerei alla pittura ad acquerello, dove i colori si attenuano, si sfumano, si confondono e poi concentrano per costituire una visione piena di profondità e atmosfera. Altra ispirazione sono gli haiku giapponesi con il loro rigore sintattico fatto di suoni, versi, ritmi. Ho cercato di combinare questi due aspetti dando delle ritornanti, un ritmo, nella disposizione delle bottiglie e nelle atmosfere che si intravedono sfocate.
Potremo definire questo progetto come composto da haiku fotografici?
Bè, da un certo punto di vista quella è stata l’ispirazione iniziale anche se poi ci sono stati degli sviluppi inaspettati. Fin da subito ho deciso di stringere e concentrarmi sulle etichette che hanno grafiche molto identitarie, andando a cercare le singole particolarità, la varietà delle carte delle etichette e la loro bottellatura a sbalzo (tipo di carattere tipografico con rilievo, ndr) e le verniciature, ma anche il vetro. E’ uno di quei classici casi in cui il contenuto si unisce al contenitore nella sua espressione esteriore: la bottiglia è parte integrante del sake in essa contenuta. Sappiamo tutti come i giapponesi siano attenti ai dettagli aspirando alla perfezione estetica. E il nihonshu non fa eccezione: è raccontato già dalla confezione/bottiglia e in essa si trovano tutte le caratteristiche tipiche dell’arte della decorazione giapponese a cui molti ancora oggi si ispirano. Vorrei citare come esempio la mise en place, la presentazione del piatto, che oggi è diventata essenziale in tutte le cucine contemporanee e prima era caratteristica e prerogativa espressamente giapponese.
..E dal punto di vista fotografico dello Still life?
M. CRIVELLIN: I set fotografici che ho costituito sono minimali, mi sono avvalso in gran parte di luce naturale e delle sue qualità uniche, coadiuvata da un’altra sola fonte e da pannelli riflettenti, ispirandomi al ciclo di produzione del sake che è molto legato alla Natura e ai suoi ritmi: la produzione di sake inizia con il raccolto del riso e finisce quando si deve ripiantare il riso; e come non ricordare il sugidama, la palla di rami di cipresso che, fuori dalle cantine, è appesa ad indicare, come vuole la tradizione, lo stato di avanzamento della produzione di sake? E che dire del legame del sake alla religione, allo scintoismo con il suo culto rivolto anche agli spiriti presenti in Natura?
Cosa ha rappresentato questo progetto nella sua carriera professionale?
M.CRIVELLIN: E’ stato un piccolo progressivo viaggio dentro le grafiche delle etichette, notando via via dettagli che compongono la narrativa del produttore. Disegni, sigilli, ideogrammi raccontano la tradizione antica e la modernità del prodotto di queste aziende artigianali: sono storie sintetizzate. Non ho lavorato solo sulle etichette e sulla loro qualità, ma anche sul vetro i suoi colori e la sua pasta, sulle forme, ponendo l’accento sulla esperienza tattile che in alcuni casi si può avere tenendo in mano una bottiglia di sake per la sua carta di riso zigrinata o per effetto della satinatura del vetro.
Ho cercato di cogliere tutto ciò che è unico nella confezione e nel sake per raccontarne l’originalità nel rispetto della sua tradizione e della sua storia. E’ stato un viaggio molto interessante verso il Giappone, pur sempre con il mio sguardo di fotografo europeo…
