C’è riso e riso da sake: il riso giapponese.
Il sake giapponese viene prodotto secondo tradizione secolare con ingredienti genuini e naturali, senza l’aggiunta di additivi, conservanti o coloranti. Sapientemente combinati tra loro il riso, l’acqua, il lento lavoro dei lieviti e l’esperienza degli uomini portano il sake in maturazione. Non si può, quindi, parlare di sake se prima non si accenna, seppur brevemente, al riso ovvero al secondo degli elementi principali se si guarda alla quantità utilizzata. Per avere un’idea, basti qui citare una proporzione molto nota e ricorrente: si dice che in media per fare il sake si usano 130 parti di acqua e 80 parti di riso.
Bene, parlando di riso, bisogna, anzitutto, distinguere due varietà di riso: l’africano e l’asiatico. Tralasciando in questa sede il primo, che ha un uso prevalentemente alimentare, prendiamo in considerazione invece quello asiatico. Quest’ultimo si distingue in tre generi principali che sono l’indiano, l’indonesiano e il giapponese. Parlando di sake giapponese, è intuitivo che prenderemo in considerazione quest’ultimo. All’interno del genere riso giapponese (Japonica), poi, vengono distinti, a seconda del contenuto di amido, il riso detto uruchimai che è il riso che viene usato per la produzione del sake ed il mochigome che è caratterizzato da un sapore più dolce ed è utilizzato, anche e sopratutto, per la preparazione di pietanze tipiche (okowa, ohagi…). Nel riso del tipo uruchimai diventa importante per la produzione del sake la presenza di una particella di amido al centro del chicco di riso: il cosiddetto shinpaku. Lo shinpaku rappresenta il cuore del chicco e visivamente si caratterizza per una parte più opaca all’interno del chicco di riso. E’ quella parte, composta di amido, che potremmo indicare come una specie di nucleo del chicco stesso. Solo il riso giapponese migliore – e più costoso – offre con una certa frequenza questo cuore di amido all’interno dei propri chicchi. La presenza o meno dello shinpaku è rilevante durante la crescita del koji e quindi è un tassello fondamentale nella costruzione del gusto finale del sake.
Il riso specifico per il sake.
Il chicco di riso da sake risulta più grosso rispetto al riso da tavola e in particolare meno appiccicoso una volta cotto a vapore. Entrambe queste caratteristiche facilitano l’uso di questo tipo di riso durante il processo di lavorazione per realizzare il sake. Pensiamo ad esempio alla sollecitazione che il chicco di riso deve sopportare quando viene sottoposto alla raffinazione. Il riso, infatti, una volta raccolto e immagazzinato, prima di essere immesso nel processo di produzione deve essere “spogliato” delle parti più esterne alla ricerca dell’amido che è invece contenuto nell’interno del chicco. Il processo di raffinazione può durare anche trentasei/quarantotto ore nei casi più estremi: in questo periodo di tempo il riso viene immesso in una sorta di mulino meccanico e molato attraverso la frizione con una pietra che ne diminuisce gradualmente la dimensione per arrivare a cedere un chicco di riso composto in modo prevalente di amido (70-80%). Per ora basti sottolineare come la scelte del riso non è demandata al caso. Il riso raccolto viene sottoposto ad un rigoroso ed attento esame sia da parte degli enti certificatori la qualità del raccolto che appartengono alle agenzie governative territoriali sia da parte dello stesso proprietario della cantina.
Invero, non tutto il riso prodotto in Giappone, ma solo quello che rispetta determinate specifiche viene utilizzato nella produzione del sake (all’incirca il 5% ) e di questo a sua volta solo un ulteriore piccola percentuale (pari all’1%) corrisponde ai criteri del disciplinare che riporta alle categorie di Premium Sake. Nel 2012, infatti, è stato formulato un vero e proprio disciplinare per stabilire quale riso sia da preferire per la produzione del sake e quale invece vada destinato a prevalente uso alimentare (riso da tavola). Tale disciplinare indica, cioè, i criteri per essere designati come riso specifici per il sake: il peso specifico (senryuju) di mille chicchi di riso deve essere pari a 25-30 g; deve essere presente lo shinpaku ; il riso deve contenere un basso tenore di lipidi e proteine e deve essere caratterizzato da una buona capacità di assorbire l’acqua.
E’ vero, d’altronde, che ci sono molti sake giapponesi che non sono fatti con un riso specifico per il sake, bensì con il riso da tavola. E se è vero, come è vero, che il riso da sake produce ottimi sake, è altrettanto vero che con il riso da tavola si possono ottenere buoni risultati: dipende – è chiaro – dalla esperienza della cantina nel gestire la fermentazione e nel tipo di gusto del sake che vuole comporre. La designazione ufficiale oggi ricomprende circa un centinaio di varietà diverse di riso specifico da sake. Il più rinomato è di certo lo Yamadanishiki che storicamente è coltivato nella prefettura di Hyogo. Altrettanto famosi sono lo Omachi, lo Gohyakumangoku, il Miyamanishiki solo per fare qualche esempio.
Parlare di riso significa parlare di economia rurale.
Il rapporto tra le moderna catena di produzione e la coltivazione del riso sembra oggi invertirsi a favore di una riscoperta di specie di riso storiche, originarie e autoctone. In passato infatti si è assistito ad un progressivo abbandono di alcune specie di riso da sake per inseguire risultati di produttività ed i gusti del mercato, magari a scapito della valorizzazione di quello che in senso lato potremo definire come terroir. Ebbene negli ultimi quindici anni, alcune tipologie di riso che non portavano ad una sufficiente quantità di raccolto e che quindi erano state abbandonate sono state riscoperte con un lavoro sinergico tra le cantine ed i coltivatori intenti alla valorizzazione e alla tutela delle varietà autoctone delle diverse zone del Giappone. La cantina di sake è diventata quindi motore di una promozione agricola locale, ottenendo spesso risultati vincenti e riconosciuti attraverso i premi vinti dai loro sake nelle competizioni sia nazionali che internazionali. Segno questo tangibile di come il riso oltre ad essere un semplice ingrediente di un processo fermentativo, debba intendersi come ingranaggio fondamentale della microeconomia rurale e quindi nazionale del Giappone.