Il Koji nel sake.

IL KOJI: CENNI STORICI.

Nel mondo del sake esiste un antico detto che sancisce in modo inequivocabile l’importanza del koji come momento imprescindibile: “Primo il koji, seconda la shubo, terzo il moromi”. Il sake giapponese non potrebbe esistere senza il koji: niente koji, nessun sake. In altre parole, in mancanza del koji non si arriverebbe ad innescare la fermentazione sia nella madre del sake (shubo) né tantomeno nella fermentazione principale (moromi). Il koji rappresenta quindi le fondamenta su cui poggia l’intero processo di produzione del sake giapponese.

Il koji è una muffa che per il valore del suo apporto e la storia che lo contraddistingue, ben potremo definire “Muffa Nobile”. Catalogato in Europa per la prima volta nel 1729 dal botanico fiorentino Pier Antonio Micheli nel Nova Plantorum genera, il Koji appartiene alla famiglia Aspergillus e alla specie nota con il nome scientifico che riporta ad Aspergillus oryzae. Il koji costituisce un elemento fondamentale del DNA della tradizione culinaria del Giappone: è dalla notte dei tempi che viene usato tanto nei cibi quanto nelle bevande. Come confermano antichi manoscritti, il koji vanta una lunga tradizione nella culinaria del Sol Levante dove salsa di soya, mirin, il miso, solo per citare gli esempi più noti, sono diventati di uso comune e parte integrante nella dieta nipponica.

Il processo di produzione attraverso l’utilizzo del koji parrebbe risalire al periodo Nara (710-784 d.c.) quando si attua, in un certo senso, uno sviluppo naturale delle tecniche mutuate dalla vicina Cina laddove la fermentazione alcolica di certe bevande veniva coadiuvata anche attraverso una muffa. Eppure se è evidente che alcuni punti di contatto e di condivisione vi siano stati tra le due culture riguardo ai processi fermentativi, è altrettanto chiaro quanto si siano create due strade parallele e differenti per specie di muffa e per metodo di coltivazione delle stesse. Mentre in Cina, infatti, viene utilizzato un tipo di fungo appartenente alla specie Ryzopus oryzae coltivato per mezzo di farina di grani crudi, in Giappone si opta per l’Aspergillus oryzae inoculato in chicchi di riso precedentemente cotti. Per le sue caratteristiche il Ryzopus oryzae ha un basso tenore nel degradare le proteine del riso cotto e impiega quattro settimane, viceversa l’Aspergillus oryzae riesce a crescere se posto in un ambiente sufficientemente umido e caldo , in soli due giorni e sviluppa un vigoroso processo enzimatico sul chicco di riso cotto a vapore. Sia ben chiaro che, pur con le dovute differenze, entrambe le muffe hanno un unico scopo: quello di sopravvivere. Ed è appunto per sopravvivere che procedono a scomporre l’amido presente nei cereali attraverso un processo enzimatico conseguenza naturale per il sostentamento  della loro crescita. Per quanto poi riguarda lo sviluppo dell’utilizzo in Giappone dell’Aspergillus oryzae (koji) invece che del Ryzopus oryzae, alcuni studi giapponesi indicano che il fungo koji sia originariamente derivato da una muffa che può infettare nelle risaie le spighe di riso. Il chicco di riso infettato avrebbe creato cioè un ambiente idoneo e fertile per la crescita di un altro fungo: il koji appunto.

Beninteso, quindi, che l’idea che anima lo sviluppo dei fermentati attraverso l’uso di muffe, sia stata un punto di partenza comune e diffuso fin dall’antichità tra le culture dell’estremo oriente, i risultati sono stati molto diversi a seconda delle risorse naturali disponibili nell’ambiente circostante, anzi nel rispetto della natura. La storia del koji fa riflettere e forse ci insegna che quanto l’umanità ha acquisito in secoli di storia se condiviso e portato in nuovi terreni liberi può essere di insegnamento per creare alternativi percorsi, magari migliori.

 

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