MASTER OF SAKE: GLI INGREDIENTI DEL SAKE.

Natura e uomini coniugano il sake giapponese nei secoli.

Approfondimento

A cura di G. Baldini

Il primo momento di conoscenza del sake lo si affronta con una degustazione, magari alla cieca. Poi segue, inevitabile, la curiosità di capire che cos’è questa bevanda trasparente e limpida che sollecita con toni a volte caldi e di umami a volte delicati e fruttati il nostro palato. Quali sono gli ingredienti che vengono utilizzati e coinvolti nel metodo tradizionale ancora oggi seguito nella produzione di questo fermentato di risoVediamo di tracciare in modo lineare quelli che sono gli ingredienti del nihonshu ovvero di quello che siamo ancora abituati a chiamare sake giapponese.

L'ingrediente più noto: il riso.

Oramai è fatto notorio che il nihonshu trovi nel riso il suo ingrediente più immediato e collegato. Si parla di sake e subito viene in mente il riso. E’ la coltivazione che per antonomasia riconduce alla tradizione giapponese e che per secoli ne ha modellato il paesaggio e ne è stato, allora come oggi, alla base della gastronomia tanto da creare un’associazione di idee spontanea, immediata anche in chi in Giappone non c’è mai stato né lo conosce se non per sentito dire.

In estrema sintesi, potremo suddividere il riso di specie Japonica, cui appartiene il riso diffuso nell’arcipelago nipponico, in due macro categorie: edibile o “da tavola” ed il riso specifico per la produzione da sake. Il riso da sake si caratterizza per un chicco di dimensioni e peso specifico maggiori rispetto a quello da tavola. Beninteso, petita iuvant, non che con il sake da tavola non si possa fare un ottimo sake. Solo che mancando di avere – o avendo solo occasionalmente – un cuore puro di amido (shinpaku), il riso da tavola dovrà essere gestito in modo meticoloso in fase di lavorazione con un’ampia esperienza da parte della cantina, pena il non riuscire a centrare l’obbiettivo di un sake con un gusto equilibrato e armonico. Invero, non è solo la presenza o meno dello shinpaku (amido presente nel centro del chicco di riso, visibile anche occhio nudo) a fare la differenza quanto anche la sua grandezza: nel riso da sake può arrivare ad occupare fino al 50 ed il 70% di spazio nel chicco di riso, aumentandone in modo determinante l’apporto di amido nella fermentazione e influendo anche sulla qualità del koji. Tant’è che in giapponese, all’interno della cantina, si parla di sakamai per indicare il riso che è destinato ad essere utilizzato in una fermentazione, mentre di shuzokotekimai per indicare un riso che nasce ed è perfetto per la fermentazione…

L'ingrediente principale: l'acqua.

Se il riso è forse l’ingrediente più conosciuto, l’acqua  – con cui il sake è prodotto – è l’ingrediente meno appariscente, pur essendo l’ingrediente che occupa il maggior spazio, in tutti i sensi, durante la produzione in cantina. L’80% del sake è composto di acqua. Molte cantine si affidano per l’approvvigionamento di acqua a sorgenti che, spesso e volentieri, sono presenti sotto forma di un pozzo artesiano – il cuore silente della produzione – e da cui ne traggono le ingenti quantità che servono per la fermentazione: si consideri a titolo esemplificativo che per una singola fermentazione possono servire in media fino 2-3000 litri di acqua. L’acqua dell’arcipelago giapponese si caratterizza per essere molto morbida rispetto agli standard internazionali e questo è dovuto per una bassa presenza di sali di calcio e magnesio disciolti. Il Giappone possiede, infatti, una composizione del terreno di origine vulcanica che esprime una forte azione di filtraggio delle fonti sorgive oltre ad essere caratterizzato da un clima che favorisce abbondanti piogge e nevicate nei mesi invernali. L’acqua è talmente importante che si narra che le cantine di sake migliori siano sorte proprio in prossimità delle sorgenti da cui sgorga un’acqua pura, incontaminata e preferibilmente priva di ferro e manganese e ricca di fosfati e di magnesio, e quindi perfetta per la fermentazione.

No Koji, no sake.

Senza Koji, il sake non esisterebbe. Il koji è l’ingrediente che oggi più che mai sta vivendo in Europa  tra gli addetti ai lavori e non solo, un momento di gloria mai visto prima: tutti ne parlano come un tesoro nascosto – eppure sotto gli occhi di tutti – per troppo tempo. Il koji riveste una importanza non solo nella produzione di sake quanto piuttosto anche nella produzione di cibi fermentati giapponesi, tanto che non a torto è stata definito dal dottor Eiji Ichishima dell’Università di Tohoku  “fungo nazionale” a sancire la sua tipicità e storica rilevanza. Il koji è una muffa nobile appartenente alla famiglia dell’Aspergyllus Orizae, catalogato per la prima volta in Europa dal botanico fiorentino Pier Antonio Micheli ritenuto il fondatore della moderna micologia. Il Koji, lo abbiamo visto, è un fungo la cui azione enzimatica serve per permettere la fermentazione e la cui storia ci parla del contatto che il Giappone ha avuto con le culture e tecniche gastronomiche vicine, coreana e sopratutto quella cinese, da cui ha prima appreso e poi migliorato le tecniche rapportandole alla natura presente in loco. Il Koji è talmente importante per realizzare una fermentazione perfetta che un vecchio adagio giapponese cita: “Prima viene il koji, poi la madre del sake (shubo) ed infine la fermentazione principale”…

L'ingrediente etereo: i lieviti.

Non si può, infine, parlare del fermentato di riso giapponese, ovvero nihonshu, senza parlare degli attori principali – il cuore vitale della produzione – che sostengono quel processo: i lieviti. Appartenenti alla famiglia dei Saccaromyces Cerevisiae, oggi nel sistema sake coesistono almeno tre tipologie principali di lieviti: quelli che potremmo definire nazionali e che possono essere acquistati dalle cantine del Nord e del Sud e viceversa; quelli individuati e studiati dai centri di ricerca delle università o istituti specializzati presenti in molte prefetture che lavorano in sinergia con le cantine locali; ed infine, i lieviti selezionati e cresciuti in segreto nelle singole cantine. Per completare il quadro bisognerebbe almeno tenere a mente anche i lieviti naturalmente presenti nell’aria della cantina e che contribuiscono ad una fermentazione con metodo Kimoto piuttosto che Yamahai dove la fermentazione della madre del sake si accende per esposizione del mix di acqua, riso cotto a vapore e riso koji, agli agenti naturali con un minimo o senza nessun intervento da parte dell’uomo.

L'ingrediente decisivo.

Sia chiaro, manca ancora un ingrediente che unisce, lega, dà forza e vita nei secoli al sake: l’uomo. Senza la competenza acquisita dai Toji, i responsabili delle fermentazioni, ma anche dai kurabito, gli operai addetti alle diverse fasi della produzione, piuttosto che dagli agricoltori che attendono alla risaie, ebbene, il sake pur esistendo nei singoli e differenti elementi naturali, come pezzi distanti di un puzzle, non esisterebbe come nihonshu, l’anima autentica del Giappone.

GIOVANNI BALDINI sake

Bio.

Ciao!
Sono Giovanni Baldini dal 2014  supporto le cantine giapponesi nell’attività di promozione della diffusione di una corretta conoscenza del sake attraverso questo blog che raccoglie anche le mie esperienze nel mondo del sake ed il sito di e-commerce, uno dei principali sake shop online in Italia dove trovare una selezione in esclusiva di sake con un’anima tradizionale. Mi sono laureato in Giurisprudenza, fotografo e manager per professione, sono diventato imprenditore per passione importando sake artigianali da piccole cantine sperdute nelle campagne o in sobborghi lontani del Giappone dove viaggio dal 2004. Spinto dalla passione ho fondato la prima Scuola Italiana Sake, dove svolgerò la mia attività di formazione a Firenze quando non sarò in Giappone a lavorare come operaio in cantina a produrre sake.

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