NIHONSHU: QUANTI TIPI DI SAKE?

Si fa presto a dire sake...

Approfondimento

A cura di G. Baldini

Oramai cominciamo ad orientarci anche in Italia e a riconoscere le differenti tipologie di sake. E non sorprende più di sentir parlare di junmaishu o di junmai ginjo senza che ti guardino strano o incuriositi (per inciso, la j ha un suono affricato e si pronuncia “giunmai” con la G morbida/dolce non e “ghingio” con la G dura e non “gingio”). Il sake giapponese, in realtà, è ricco di varianti che contribuiscono ad allargare gli orizzonti di questo fermentato di riso. Scoprire il sake è un processo conoscitivo che procede per gradi, partendo anche dall’etichetta.

Il sake giapponese ovvero il Nihoshu.

Bisognerà pazientare ancora prima che la parola “nihonshu” entri a far parte definitivamente del nostro bagaglio linguistico, ma d’altronde è un fatto relativamente recente. E’ sì, perché è solo dal 25 dicembre del 2015 che il termine “nihonshu” fa parte delle indicazioni geografiche protette e registrate a livello mondiale (G.I.): si potrà chiamare sake giapponese o, meglio, nihonshu solo il fermentato prodotto con il riso coltivato in Giappone e con l’acqua di sorgente locale. Eppure già da tempo in Giappone esiste una suddivisione ufficiale che descrive le diverse tipologie cui appartiene questo o quel nihonshu

La fonte normativa: Tokutei meisho shu.

La classificazione legale dei sake (Tokutei meisho shu) del 1992 si limita a definire i criteri di produzione idonei ad individuare e a descrivere le caratteristiche proprie delle otto tipologie appartenenti ai Premium sake (rispettivamente junmaishu, tokubetsu junmai, junmai ginjo, junmai daiginjo e, ancora,  honjozo, tokubetsu honjozo, ginjo e daiginjo) da una parte e del sake ordinario o “da tavola” (futsushu) dall’altra. Attraverso questo atto normativo viene non solo sancita una distinzione, ma anche limitata e circoscritta la descrizione di ogni singola tipologia di sake. Deriva da qui, per esempio, che la descrizione “Junmai Ginjo” riporta ad un sake che è stato prodotto con un chicco di riso raffinato tra il 50 e 60%, senza aggiunta di alcol se non quello derivante dalla fermentazione.

Il nihonshu è tutto qui o c'è altro?

Per completare il quadro, in verità, non si può non citare il fatto che accanto ed in aggiunta a queste otto tipologie esistano anche altre specifiche denominazioni tipiche e attribuibili al nihonshu. Le denominazioni a cui si fa riferimento qui sono quelle che si fondono a quelle Premium e trovano la loro origine e che si riferiscono o a un metodo di produzione diverso e ulteriore rispetto alla descrizione data nella classificazione ufficiale, senza peraltro escluderla, ma, anzi, arricchendola, oppure a quei sake che nella dicitura si appellano alla stagionalità del sake.

Tralasciando ad altro articolo l’approfondimento sui sake stagionali, c’è da sottolineare come entrambe le casistiche ben rientrano e fanno normalmente parte delle variabili delle produzioni di sake. Le cantine, cioè, possono scegliere di mettere in fermentazione, di solito in quantità limitata, alcune tank per produrne un sake con un metodo particolare o, se vogliamo avvicinarci al concetto, con una caratteristica ulteriore. Questo ha senz’altro lo scopo di aumentare l’appeal della propria produzione e, sopratutto, di soddisfare le annuali richieste da parte di clienti abituali, vicini alla cantina e esperti delle varianti che il sake può assumere e delle sue molteplici occasioni di abbinamento.

Riconoscere il sake dal punto di vista del metodo di produzione.

Dal punto di vista dei metodi di produzione, previsti e disciplinati, potremo senz’altro citare i nama, ovvero i sake non pastorizzati; gli sparkling, i sake sottoposti al processo di spumantizzazione;  i koshu, i sake invecchiati; i nigori, sake che possono presentare un residuo  più o meno consistente di mosto di riso; i genshu, i sake non diluiti con acqua; i muroka, sake non filtrati; i kijoshu, sake prodotti con l’addizione di sake durante la fermentazione; ed infine, i taruzake, sake che fanno un passaggio in botti.

Bene, ognuna di queste categorie (spumantizzati, invecchiati..etc..) possono apportare ulteriori variabili di gusto che troviamo indicate nella descrizione dell’etichetta e che possono riportare alla combinazione costituita da una o più caratteristiche attinenti al metodo di produzione. Non solo, queste caratteristiche possono anche trovarsi combinate tra loro contribuendo così ad allargare gli orizzonti del sake.

Si fa presto a dire Nama...Quanti Nama esistono?

Prendiamo, ad esempio, il sake crudo, il nama. Nella maggior parte dei casi il sake prima di essere immesso sul mercato viene pastorizzato due volte. Questo permette di fermare ogni processo di fermentazione ed enzimatico e quindi consentirne una più lunga conservazione in bottiglia. Nella maggior parte dei casi, non significa sempre.

Il produttore può infatti decidere o di  non pastorizzare il sake ed avremo il nama vero e proprio; oppure può procedere a pastorizzare il sake una sola volta subito dopo la pressatura ed allora avremo il nama tsume. Oppure, infine, il produttore può pastorizzare il sake sempre una sola volta però prima dell’imbottigliamento riportando il sake alla definizione di nama chozo. E’ chiaro che la scelta rientra nella piena discrezionalità delle cantine sul proprio stile di produzione oltre che da un imprenscindibile calcolo economico sulla sostenibilità che questa scelta implica per cantine di piccole o di medie dimensioni. Invero sull’etichetta verrà riportata tout court la dicitura nama con la quale si indicherà appunto il metodo particolare (assenza di pastorizzazione) seguito nella produzione e per il consumatore finale sarà indicativo di come deve mantenere il sake, sempre al freddo, e che cosa aspettarsi da quel sake, di solito abbondante di complessità di gusto e aromatiche. E fin qui tutto bene. Se poi il sake che è rimasto non pastorizzato è un junmai ginjo? Ci troveremo quindi difronte ad una etichetta che riporta il tipo di sake, ad esempio, Junmai Ginjo piuttosto che Junmai Daiginjo, in riferimento al grado di raffinazione del chicco di riso e della assenza di alcol aggiunto, con la chiara indicazione di una ulteriore specifica parola nama per indicare che non è stato sottoposto a pastorizzazione. E fin qui tutto bene. E se poi questo sake fosse anche non filtrato e non diluito? Ecco che allora dovremo aggiungere un altro tassello alla nostra costruzione nella descrizione di quel sake, e si parlerà di Muroka (non filtrato) Nama (non pastorizzato) Genshu (non diluito) Junmai ginjo. 

Libertà e creatività.

Da quanto detto, ben si comprende che dire sake o, più propriamente, nihonshu, dal punto di vista della produzione indica “solo” la famiglia di appartenenza del fermentato di riso e riconduce alla sua tipicità. E ben venga dal punto di vista della tutela legale. Eppure a ben guardare in profondità, si scorgono molte altre possibilità e complessità che aggiungono valore e portano a stili diversi andando a creare quella poliedricità che forma e compone le note per realizzare la creatività e libertà di scelta: dei produttori di sake nel momento di porre in essere il processo di fermentazione e, perché no?, del consumatore nel momento della scelta di quale sake abbinare in una determinata occasione. Stiamo parlando di quella tipicità nella tipicità che è bene cominciare a scoprire. Ed è per questo che bisogna considerare il sake non già solo come ad un bene voluttuario o come ad un fenomeno frutto di una storia e di regole precise, ma anche espressione straordinaria di una tradizione che ha saputo rinnovarsi e arricchirsi nei millenni tanto che ancor oggi offre molteplici spunti di abbinamento, differenti gusti, stili e approcci e combinazioni nei metodi di produzione, pur che lo si sappia degustare e leggere nella sua complessità o almeno in etichetta.

 

GIOVANNI BALDINI sake

Bio.

Ciao!
Sono Giovanni Baldini dal 2014  supporto le cantine giapponesi nell’attività di promozione del sake attraverso questo blog che raccoglie anche le mie esperienze nel mondo del sake ed il sito di e-commerce, uno dei principali sake shop online in Italia con una selezione esclusiva di sake con un’anima tradizionale. Mi sono laureato in Giurisprudenza, fotografo e manager per professione, sono diventato imprenditore per passione importando sake artigianali da piccole cantine sperdute nelle campagne o in sobborghi lontani del Giappone dove viaggio dal 2004. Spinto dalla passione ho fondato la prima Scuola Italiana Sake, dove svolgerò la mia attività di formazione a Firenze quando non sarò in Giappone a lavorare come operaio in cantina a produrre sake.

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