Il Koji nel Sake: seconda parte.
Nella prima parte abbiamo già accennato a quale sia stata la lunga strada percorsa dal koji nella sua storia millenaria. Tanto antico, quanto moderno. Nel 2006 il Governo giapponese ha insignito il koji del titolo di “Muffa Nazionale”. E’ una muffa della ci conoscenza non si può prescindere se si vuol veramente comprendere lessenza della cucina tradizionale giapponese. Basti pensare che il koji è importane tanto per la produzione di sake quanto per la salsa di soia, il miso, il mirin, lo shochu…Il koji è uno strumento naturale incredibile per quello che permette di fare e per il contributo nutritivo che cede durante il processo di trasformazione. Il koji è una muffa nobile necessaria alla trasformazione di materie prime (soya, riso, orzo, grano..) e la loro successiva fermentazione.
Ricordo che una volta mentre ero in cantina il Toji mi disse: “ Se sai fare un buon koji, sai fare un buon sake. Devi guardare il koji come se fosse una trave della casa che stai per costruire. Quanto è grande? Di che legno è fatta? Quanto è resistente o profumata di cedro? La trave deve ornare l’ambiente oppure rimanere nascosta? In che posizione la collochi, all’ingresso o all’uscita?” Si riferiva al koji come elemento essenziale nell’insieme di tutto quello che vi ruota intorno. Fuor di metafora, è anche con il contributo del koji che “si centra” il gusto del sake per esaltarne un profilo secco o viceversa fruttato.
Le varianti di koji che nei secoli sono state selezionate per la produzione di bevande e cibi fermentati appartengono a tre specie: il kuro-koji, lo shiro koji e il ki-koji. Il nome in lingua giapponese indica il colore delle spore prodotte dalle diverse specie di fungo. Il kuro koji o koji nero, appartiene alla specie dell’Aspergillus niger nella variante Awamori (1907). Quest’ultimo viene utilizzato prevalentemente nella fermentazione che precede la distillazione dell’omonima bevanda Awamori, tipica dell’isola giapponese di Okinawa. Il koji nero si caratterizza per una vigorosa produzione sia di acido citrico che di enzimi per la saccarificazione. Lo shiro koji o koji bianco, Aspergillus Kawachi ha caratteristiche simili al koji nero da cui deriva, mantenendo però una maggior stabilità nello sviluppo enzimatico, e viene utilizzato quasi esclusivamente per la produzione del distillato nazionale giapponese, conosciuto con il nome di shochu. Dulcis in fundo – ultimo, ma non meno importante – il ki koji o koji giallo, Aspergillus oryzae: il Koji del Sake. Grazie alla sua bassa acidità e ad una buona capacità di saccarificare l’amido presente nel chicco viene preferito per il sake. In realtà le spore di questo koji tendono ad un colore verde ed in cantina si utilizzano sia nella versione in polvere che in quella di chicchi di riso. Quante spore si usano? In media per fare il sake da un riso molto raffinato si usano all’incirca 10 grammi per 100 kg di riso. In media e solo per dare un’idea verosimile, ovviamente. Il koji può crescere sui chicchi di riso cotti a vapore solo in un ambiente in cui umidità e temperatura (32/35°C) sono controllate. Le spore impiegano circa 48 ore per svilupparsi sul riso. In ogni cantina esiste quindi uno spazio dedicato: la Kojimuro. Questa è una camera di circa venti metri quadri, asettica e coibentata, in cui il riso cotto a vapore viene disteso e inoculato con le spore della muffa dal responsabile del Koji o dal Toji stesso. Nella Kojimuro possono accedere solo i responsabili della produzione del koji per evitare contaminazioni dall’esterno. E’ una sorta di stanza magica dove si gestisce l’invisibile. Qui si assiste alla graduale crescita della muffa sul chicco di riso che alla fine del processo apparirà come coperto da leggero manto vellutato bianco. Per favorire il naturale sviluppo del Koj, il riso deve essere manipolato e mescolato durante l’arco delle 48 ore. E’ un lavoro che va effettuato monitorando continuamente temperatura ed umidità. Il koji è e rimane uno strumento potente perché permette di creare le basi per la fermentazione. Prima si coltiva il koji e poi si arriva alla fermentazione. Questo è un passaggio chiave. Non c’è altra strada, almeno per ora, per il sake giapponese: no koji, no sake!
Ci sono delle eccezioni? Il mondo del sake è libero dagli stereotipi e le eccezioni ne sono linfa vitale. Sappiamo che il sake giapponese ha una acidità inferiore a quella del vino. E’ una sua amabile peculiarità. Ebbene, ci sono alcuni produttori di sake che optano per uno stile particolare di sake: utilizzano solo o soltanto una parte di koji nero o bianco per avere nei loro sake una acidità che potrebbe essere paragonabile a quella del vino. Questa rimane una scelta di stile limitata a pochi episodi, comunque interessante e di sicuro da provare una volta nella vita.
Il koji sostiene, come un’architrave, una riflessione interessante per chi si avvicina al sake giapponese: non esiste un unico stile od un unico gusto del sake. Le variabili sono moltissime e tutte molto affascinanti. Pensate, ad esempio, a cambiare tipo di koji o quantità di riso koji nella fermentazione o anche a cambiare l’intensità di sviluppo dello stesso koji sul chicco di riso: sono tutte variabili che, se sapute gestire nella fermentazione, portano a degli ottimi sake. Il koji, a scapito della sua veneranda età, è un ingrediente che ancora riserba molte soprese nella produzione del sake. A volte sembra che il mondo del sake non abbia confini. Lo spingersi oltre e la creatività trovano qui terreno fertile. Il mondo del sake è libero.